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Roberto Bianchi

 

♦ Da anni mi chiedo quali siano le effettive motivazioni che spingono le imprese di assicurazione a sviare la distribuzione assicurativa dalle agenzie, che ancora rappresentano lo zoccolo duro del mercato danni, verso i canali non professionali e la vendita diretta.
Mi ha fornito una nuova chiave di lettura che considero molto plausibile e di cui vi darò conto alla fine del mio ragionamento, la notizia che l'Autority europea di vigilanza delle assicurazioni (Eiopa), ha recentemente messo in guardia le compagnie assicurative e le banche affinché affrontino le criticità riguardanti la vendita di prodotti assicurativi a protezione del credito. Nello specifico l’allarme si riferisce ai risarcimenti legati alle polizze CPI che risultano mediamente inferiori al 30% dei premi pagati dai clienti.
Il recente riesame tematico dell’Eiopa, riguardante 174 compagnie assicurative e 145 banche, “ha evidenziato gravi problemi, soprattutto per quanto riguarda le commissioni elevate e i conflitti di interesse tra i soggetti che realizzano prodotti assicurativi, i distributori e i consumatori, con la conseguenza che i prodotti non offrono un valore adeguato e la scelta a disposizione dei consumatori è limitata nel contesto dei modelli di business della bancassicurazione”.
Le commissioni che possono raggiungere anche il 90%, nonostante di norma i prodotti CPI non comportino particolari costi di distribuzione, trattandosi di polizze standard a taglio fisso, possono infatti prefigurare “oneri ingiustificati per i consumatori e pratiche tariffarie sleali”. Tanto ingiustificate, ha aggiunto Eiopa, da “determinare conflitti di interesse significativi e dannosi e l’attuazione di cattive pratiche commerciali per massimizzare i profitti” (per esempio tecniche di vendita aggressive e impropria).
Si consideri inoltre che “le compagnie assicurative facenti parte di un’alleanza strategica o della stessa holding finanziaria di banche (il 63% del totale, ndr.)... pagano commissioni più elevate alle banche suddette rispetto al caso in cui siano in atto accordi di distribuzione non esclusiva”.
Inoltre, un terzo “delle banche ha applicato nei confronti dei propri dipendenti sistemi di incentivazione per la vendita di prodotti CPI” e legato la concessione del credito al contestuale acquisto, da parte del richiedente, di un collegato prodotto CPI.
Infine, una quota significativa di prodotti CPI, venduti non di rado a premio unico finanziato, generano interessi passivi supplementari, sollevando “ulteriori questioni riguardanti la risoluzione anticipata, lo switch o la disdetta della polizza CPI”.
Scartata pertanto l’ipotesi che gli acquirenti di tali polizze siano i più fortunati d’Italia o i meno soggetti ai rischi assicurati, un S/P al di sotto del 30% fa sorgere il legittimo dubbio che le polizze in discussione non siano adeguare alle esigenze di sicurezza espresse dalla clientela e che le prassi adottate dalle banche non rispettino gli obblighi connessi al governo e al controllo del prodotto (Pog).
Oppure che la vendita non professionale di contratti assicurativi riguardanti la persona e la continuità lavorativa, “baciata” alla concessione di una linea di credito, sposti l’attenzione del richiedente dalla componente assicurativa verso l’effettiva possibilità di ricevere il denaro necessario all’acquisto di un immobile o di altri beni e servizi. Quando un utente bancario richiede un finanziamento, la sua preoccupazione è infatti focalizzata sulla possibilità di ottenerlo in tempi utili per fare fronte ai propri impegni economici, non certo sulle garanzie assicurative contenute nella CPI che non vengono comprese e tantomeno memorizzate. Soprattutto perché esposte in modo frettoloso come fossero una conditio pressoché obbligatoria per ottenere l’accesso al credito. Ne consegue che al momento del sinistro pochi clienti sanno, o per lo meno ricordano, di essere assicurati.
Lo stesso effetto amnesia è peraltro latente in qualsiasi forma di vendita non professionale, laddove si parla di prezzo stracciato, del vantaggio di comparare le offerte, della possibilità di acquistare una polizza stando comodamente seduti in poltrona e molto poco, o forse niente, del contenuto contrattuale. Un tale tendenza all’oblio riduce talmente la facoltà del cliente di fissare nella memora quali siano i rischi che ha trasferito all’assicuratore acquistando una polizza, che il combined ratio, ovvero l’indice di profittabilità, a dispetto delle ricchissime commissioni erogate all’intermediario (banca), precipita oltre il margine della tollerabilità.
Ne deriva ed eccoci così giunti alla tesi cui accennavo in apertura, che una delle componenti principali della scelta di puntare sui canali non professionali risieda, a mio avviso, proprio nel fatto che l’insufficiente, lacunosa, fuorviante, informativa precontrattuale da essi erogata aumenta, al limite della sostenibilità normativa e regolamentare (da qui l’intervento di Eiopa), la percentuale di richieste di risarcimento cadute nel dimenticatoio. Staremo a vedere quale sarà la posizione assunta al proposito da Ivass e Antitrust.
Non c’è dubbio, comunque, che la categoria degli agenti professionisti abbia tutto l’interesse a prendere le distanze da qualsiasi tentazione predatoria orientata all’ottenimento di una remunerazione del capitale investito dagli azionisti così elevata che l’intera società ne subisce danno in termini di eccessivo costo del servizio assicurativo e a schierarsi al fianco del consumatore proponendosi come imprenditore privato che svolge un’attività consulenziale di elevato valore sociale. Un ruolo evidentemente vacante nello scenario finanziaristico che caratterizza l’attuale distribuzione assicurativa italiana.
Roberto Bianchi

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